| 
                     La nascita delle prime botteghe di falegnameria nel
                quartiere del Prato, in genere legate al commercio antiquario di
                Sisi, si colloca all’inizio degli anni ’50. La difficoltà
                degli stessi artigiani dell’epoca di indicare con precisione
                il periodo di avvio dell’attività è emblematica di un tempo
                in cui la ricerca talora affannosa di prospettive di lavoro
                lasciava ben poco spazio alla formalizzazione di rapporti
                professionali. Né chi, allora, fondava minuscole botteghe,
                cambiando spesso soci e sede da un fondo all’altro, poteva
                realisticamente nutrire l’ambizione di vederle diventare un
                giorno solide attività artigianali e addirittura industriali.
                La prima fu quella di Antonio Fodaroni, 
                detto Nino e soprannominato “Nerone”. Falegname e
                meccanico rurale originario di Caifirenze, presso Bocca Serriola,
                poi stabilitosi a Nuvole, nel 1952 incontrò casualmente Sisi 
                    nella di lui bottega, mentre si riparava  dalla   
                    insistente  pioggia  che   in   
                    quella   stagione sovente gli impediva di guadagnarsi da vivere nei 
                    poderi di campagna. L’antiquario,  bisognoso  di 
                    manodopera, volle    | 
                    
                      
                    
                    Falegnami e apprendisti in una bottega di via della Rotonda 
                    (anni Cinquanta) | 
                   
                  
                    | 
                     sapere  quale mestiere facesse; poi, senza 
                    alcun indugio, gli propose di lavorare per lui. “Mi Guardò 
                    con i sui occhi furbie mi convinse” – racconta Fodaroni – “ho messo su bottega prima in via dei Casceri poi
                in piazza dell’Onestà. Lavoravo giorno e notte. All’inizio
                restauravo soprattutto i mobili che Sisi comperava. Tante volte
                però li guastavo, per vedere come erano fatti e imparare così
                a ricostruirli fedelmente. Fin dall’inizio mi è piaciuto
                rifare con il legno vecchio i mobili che mi passavano per le
                mani”. Il modo del tutto empirico in cui Fodaroni si
                avventurava in una nuova dimensione professionale era tipico di
                un’intera generazione di artigiani: “Insieme a Sisi abbiamo 
                    imparato tante cose. Spesso, la sera, facevamo le ore 
                    piccole per studiare il modo migliore per realizzare un 
                    mobile. E poi quanti libri mi sono letto sui mobili… Il 
                    libro era sempre sul comodino e talvolta, per la stanchezza, 
                    mi addormentavo con la sigaretta accesa.” La pur solida 
                    esperienza di manualità che un falegname rurale portava con 
                    sé non poteva certo bastare – e ve n’era consapevolezza – 
                    per le più sofisticate lavorazioni nel settore del restauro 
                    e della ricostruzione di mobili in stile. Questi artigiani 
                    di origine contadina inoltre compresero l’importanza di una 
                    sana moralità professionale: in un settore così rischioso, 
                    non si poteva ingannare il cliente, che doveva sapere con 
                    certezza se il mobile era restaurato, rigenerato, 
                    ricostruito con legno antico o semplicemente imitato. Le continue commesse portate da Sisi 
                    assicurarono comunque stabilità alla   | 
                   
                  
                    
                      
                    Mobile 
                    realizzato in una bottega del Prato (1959) | 
                    
                     bottega di Antonio Fodaroni, che prese con se il padre Sisto e avviò al mestiere
                il più giovane fratello Giuseppe. Intanto altri Fodaroni 
                intrapresero la stessa attività. I fratelli Paolo e
                Benito, cugini di Antonio e anch’essi inurbatisi dalla
                “Cima” – la zona di Bocca Serriola - , rimasero insieme per
                tutti gli anni ’50 in via della Rotonda; Poi si sistemarono
                ciascuno in una propria bottega: Paolo, detto anche Giorgio, in
                via dei  Casceri, Benito in via San Florido. Pochi anni dopo Sisi 
                    li avrebbe citati come i primi e più valenti collaboratori 
                    per restauro e rifacimenti, tra i pochi ad essere in grado 
                    di mettere mano a quella che si definiva “roba mossa cioè mobilio  
                      | 
                   
                  
                    | 
                      in stile Settecento. Sisi rimase il loro costante punto
                di riferimento, ma, man mano che acquistavano perizia nel
                mestiere, stabilirono proficui 
                e autonomi rapporti di fiducia con noti antiquari di
                Anghiari, tra cui Giuseppe Mazzi, Milton Poggini e Galliano
                Calli, e altri ancora di Firenze e Roma. Dovevano però farlo di
                nascosto da Sisi: non avrebbe tollerato un simile sgarbo. Nella
                seconda metà degli anni ’50 altri giovani artigiani misero su 
                bottega nel quartiere del Prato su sollecitazione di Sisi
                e grazie il suo sostegno. Ezio Venturucci faceva il falegname
                senza molte prospettive nella frazione di Santa Lucia, quando il
                cugino Nazzareno gli fece conoscere l’antiquario, per il quale 
                già lavorava, e assegnare qualche piccola commessa di 
                    restauro.  | 
                     
                  
                    | 
                      I Venturucci rimasero per un po’ insieme in via
                dell’Ariento, quindi Nazzareno emigrò; Ezio allora si associò
                a Plinio Calducci, stabilendo un legame di fiducia con Sisi
                protrattosi per lunghi anni. I due soci trovarono poi una
                migliore sistemazione in via della Volpe Vecchia. Con loro
                concluse la carriera anche uno della vecchia guardia, Luigi
                Vigna. Un tempo questi era il titolare della citata “fabbrica
                di mobili artistici in malacca, midollo, legno”;
                successivamente prestò la sua opera di ebanista nell’officina
                di Matteo Bigini e, infine, fu uno dei pochi falegnami anziani
                disposto a dedicarsi anche al restauro e all’esecuzione di
                complessi manufatti in stile. Anche Luigi Giorgeschi, per breve
                tempo apprendista di Sisi,condivise con Venturucci e Calducci
                la botteguccia in via dell’Ariento.  | 
                    
                     
                      
                    Veduta 
                    di via dell'Ariento (1959)  | 
                   
                  
                    | 
                      Quindi lo sviluppo del
                settore lo indusse a trasferirsi in spazi più ampi, in via
                della Rotonda. Tra i primi laboratori ad aprire fu quello di 
                    Primo Beccafichi, al quale si affianco Gino Cacioppini: entrambi
                non avevano alle spalle che una modesta esperienza di 
                    apprendistato. In queste botteghe 
                prese forma la “catena” produttiva al servizio di
                Sisi: così come, nello stesso fondo, si integravano il
                falegname e intagliatore Venturucci e il lucidatore Calducci, in
                locali diversi Beccafichi e Cacioppini (“Fico” e “Cacioppino”)
                fabbricavano o restauravano il mobilio che poi Giorgeschi (“Vecchina”) 
                    provvedeva a patinare e lucidare. L’esiguità iniziale dei
                mezzi non impedì loro di affermarsi in pochi anni, tanto da
                dover acquisire nuovi ambienti in diversi vicoli: Beccafichi e Cacioppini arrivarono ad avere circa 5 dipendenti: Venturucci e
                Balducci tre o quattro operai fissi, oltre ai giovani allievi
                della Scuola Operaia che d’estate andavano a far pratica. Un
                altro laboratorio di restauro, infine, lo aprì un ex operaio di
                Antonio Fodaroni, Dino Vagnoni, detto “il Biondo”. Tra la
                fine degli anni ’50 e il decennio successivo presero il via
                diverse altre botteghe nel quartiere, alcune delle quali
                destinate ad un roseo ed allora imprevedibile sviluppo. Vi fu
                Chi operò opportune scelte di specializzazione. E’ il caso di
                Dante Bellucci. Anch’egli ebbe la fortuna di incrociarsi con
                Sisi. Falegname rurale a Buon Riposo e poi a Ca’ dei Cigni, si
                è inurbato intorno al 1956, dedicandosi a una modesta
                produzione di infissi e poche altre cose. Nel 1960 Sisi gli
                affidò la riparazione di sei seggiole; rendendosi conto delle
                sue capacità professionali, gli propose:”Perché non butti
                via tutti questi infissi e non ti metti invece a costruire
                mobiletti antichi , magari seggiole e poltrone? Così
                guadagneresti qualcosa!”. Dante gli dette retta e,  affiancato da i figli Aldo e Ivo, mutò la produzione della
                bottega in via della Rotonda. Di lì a qualche anno avrebbe
                costituito la FATISE (Fabbrica Tifernate Seggiole). Le vicende
                di Dante Bellucci e Antonio Fodaroni sono emblematiche di
                quell’artigianato rurale che  negli anni ’50 andò in crisi di pari passo con l’impetuoso 
                abbandono delle campagne, ma trovò talora felici intuizioni 
                imprenditoriali in città. Il falegname rurale aveva generalmente 
                un piccolissimo laboratorio nel podere dove il resto della 
                famiglia continuava a dedicarsi alla coltivazione dei campi; 
                però gran parte del lavoro lo si svolgeva in maniera ambulante, 
                direttamente nelle case dei committenti. Un tempo si spostava a 
                piedi portandosi dietro la “sporta” o lo zaino con gli attrezzi 
                e di frequente pernottava dai contadini presso i quali “gìa a òpra”. Dopo la guerra, l’ultima
                generazione di ambulanti poté continuare su qualche mezzo di
                locomozione: Bellucci si muoveva in Vespa, Fodaroni con una
                bicicletta costruita insieme al padre rimettendo insieme pezzi
                di diverse vecchie bici. Quindi, utilizzando il legname e
                qualche componente di solito già preparati dai contadini, il
                falegname ambulante costruiva o riparava carri agricoli, botti,
                infissi e i pochi mobili delle povere case di campagna: madie,
                tavoli, letti, vetrine. Nessuno meglio di loro sapeva 
                fabbricare quel mobilio “rustico”, nel contempo pratico ed
                  economico, che ai più scrupolosi ebanisti di città poteva
                  apparire sin troppo grezzo e approssimativo. Alcuni ambulanti,
                  inoltre, seguendo particolari inclinazioni e stimolati dal
                  bisogno, si dedicavano a lavorazioni complesse 
                  ed eterogenee. Sisto Fodaroni, meccanico oltre che
                  falegname, riparava attrezzature della cantina e macchine per
                  trebbiare; saltuariamente persino fucili da caccia
                  (“schioppi”) orologi e sveglie. Dante Bellucci si
                  ingegnava a costruire ciò che più urgeva in casa e, per
                  mancanza di soldi, non si poteva acquistare. Dopo la guerra
                  rifece una falciatrice; ne aveva vista una sotto la villa
                  della Montesca e volle copiarla: “Me la sono studiata e ho
                  fatto da me tutte le parti in legno, quelle in ferro le ho
                  date a fare al fabbro. E’ stato difficile, roba da consumare
                  tutte le mie energie. Lavoravo al chiuso del laboratorio; non
                  volevo che nessuno mi rubasse i segreti. Appena costruita,
                  l’abbiamo provata con mio fratello al lume di luna, per non
                  dare nell’occhio. Purtroppo, mi sono subito reso conto che
                  c’era un difetto. Quella stessa notte non ho chiuso occhio.
                  Poi ho chiesto in giro e ho capito cosa non andava. Ma mi ci
                  è voluto un po’ di tempo per rimediare all’errore: mi
                  mancavano i soldi per acquistare gli ingranaggi di cui avevo
                  bisogno”.  | 
                   
                 
                 |